Le scarpe in mano II

             II

Un paese come tanti, adagiato tra la riva del fiume e una bassa linea di colline, con intorno acque di palude, lago e mare. E campagna: il piano e la bonifica, nera e torbosa.
Vita di campi e di cava e poi le prospettive cambiate dal progresso, con i suoi benefici e le inevitabili contraddizioni.
E’ in questo quadro di composta vita paesana che irrompono novità in contrasto con la semplicità del costume, con la mentalità corrente e la visione del mondo di una comunità antica, ma tutt’altro che antiquata, radicata nei suoi valori e nella solidità delle sue, magari modeste, certezze.
Un locale notturno allestito in uno degli edifici più vecchi del paese, con la sua austera mole in pietra a vista, un frantoio ormai in disuso da anni. E proprio “Il Frantoio” fu il nome scelto per il night club.
Per il paese iniziò una notorietà un po’ imbarazzante, come se la mondanità della vita notturna si estendesse anche ai suoi abitanti.


Un contrasto evidente tra due mondi e due realtà legate solo dalla vicinanza fisica e da una comprensibile curiosità di gente che, abituata alla vita un po’ sonnolente del vecchio borgo, si trovava a convivere con situazioni inconsuete.
 Belle ragazze in paese ce ne sono sempre state, amori e corteggiamenti, rivalità e promesse hanno sempre costellato l’esistenza delle giovani generazioni, presupposto alla continuità biologica e sociale.
Ma in questo frangente il quadro di riferimento risultava drasticamente cambiato. L’avventura, l’esotismo e l’erotismo, nemmeno tanto dissimulato, facevano irruzione
nella tranquilla quotidianità.
Non era raro vedere, in un negozio, esotiche bellezze, di provenienza di solito est europea, prendere in mano qualche oggetto, informarsi del prezzo per poi posarlo di nuovo sullo scaffale. Segno che gli ingaggi per le loro esibizioni non erano poi così favolosi. Così come non era un segreto per nessuno che altri introiti completassero un ménage tanto precario.
Qualche famiglia fu scossa da un dissesto che coinvolgeva sensi, sentimenti e finanze in misura diversa, ma significativa.
Siccome la pubblicità è l’anima del commercio, in qualche vetrina cominciarono ad apparire capi di biancheria piuttosto succinti ed indumenti di luccicante richiamo, che fino ad allora non avevano incontrato il favore neanche delle paesane più disinvolte.
Al  passaggio dei cinguettanti drappelli di ragazze, annunciato e seguito da accenti di linguaggi incomprensibili e rumore di tacchi  alti sull’asfalto delle vie del centro, facevano eco commenti di diversa natura, compiaciuti, scandalizzati o indulgenti, secondo il sesso, l’età, l’estrazione culturale e le convinzioni di chi li esprimeva.
In una sera di tardo autunno, che già preludeva a Natale, una coppia di queste ragazze si fermò davanti alla vetrina di un piccolo ma fornitissimo negozio di calzature.
 Le scarpe, una per modello, come vuole una mostra ben fatta, si porgevano allo sguardo del potenziale acquirente, adagiate su ripiani resi scarlatti dalla carta crespata del sapiente addobbo natalizio. Le ragazze entrarono nella bottega, salutate con professionale cordialità dalla proprietaria, che si aspettava una richiesta di merce adatta alle clienti e quindi già si accingeva a mostrare i bei modelli invernali di seducenti calzature femminili, quando la più giovane delle signorine le chiese, nel suo italiano stentato, aiutandosi con i gesti, di mostrarle un paio di scarpine numero ventotto. Scarpine adatte al piedino di un bimbo di tre o quattro anni. La proprietaria tolse dalla piccola scatola di una nota marca di calzature infantili, disegnata ad orsacchiotti  e palloncini, le scarpine uguali a quella posta  nella vetrina, che la ragazza le aveva indicato.
La ragazza prese in mano tutte e due le piccole scarpe e scoppiò in lacrime.


 

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