Le scarpe in mano III



        III


Farsi “mandare dalla mamma a prendere il latte” non è sempre una cosa facile.
Io ne avrei fatto volentieri a meno, per il semplice motivo che la famiglia di agricoltori dalla quale ci rifornivamo del bianco alimento aveva un grosso cane nero, dal pessimo carattere. La mia irrazionale paura per gli amici dell’uomo a quattro zampe è sempre stata insuperabile, qualunque fosse la loro taglia. Buck era decisamente un grosso cane, nero, a pelo raso, che mi faceva ancora più paura, con quel guizzo dei muscoli che si indovinava sotto il manto lucido. La sua ugola minacciosa mi rintronava gli orecchi, la voce del forte abbaiare saliva e scendeva fin dentro la testa e la pancia. La sua catena, poi, era così lunga che arrivava quasi al muro esterno della casa e, per me, svoltare l’angolo e raggiungere la porta d’ingresso era un’impresa terrorizzante. Era inutile che i padroni mi rassicurassero sulla non pericolosità del loro animale. Fin dal primo pomeriggio il mio pensiero, sia che giocassi o eseguissi i compiti, era dominato dall’avventura serale del rifornimento giornaliero di latte, che solo raramente riuscivo a delegare a mio fratello, il quale  aveva già le sue incombenze. Avrei eseguito piuttosto le più ostiche divisioni a tre cifre e svariati decimali, ma per lo meno quelle non mordevano.


    Erano molte le famiglie di agricoltori del nostro paese che a quei tempi integravano
 i guadagni derivati dai raccolti con la vendita diretta del latte. Ciò avveniva prima che il progresso ponesse le sue regole igieniche e commerciali. E prima che altri mestieri e occupazioni sostituissero il lavoro in campagna. Era un modo che permetteva ai paesani, oltre all’approvigionamento di un prodotto genuino, anche un continuo contatto, una fitta rete di informazioni pratiche, aiuti , pettegolezzi e tutto ciò che forma la vita di relazione esplicita e ufficiosa di una comunità.
    La padrona di casa assolveva alla distribuzione del latte, che le massaie prenotavano, contemporaneamente alle faccende serali e alla preparazione della cena per la famiglia e di solito gli uomini si attardavano nei campi o nella stalla, dopo la mungitura, per accudire le mucche. E c’era anche il cavallo, spesso femmina, per poter aggiungere al reddito delle coltivazioni anche la vendita del puledro, tra il rammarico dei più piccoli, che nel frattempo ci si erano affezionati.
Le donne anziane dicevano che la mucca e la donna si somigliano, nella maternità.
Il vitellino, come il bimbo, ci mette nove mesi a nascere ed il latte della mucca è simile a quello materno e quindi lo può sostituire.
Spesso, se una puerpera non poteva allattare il suo bambino, c’era l’uso, suggerito da madre natura, ma anche avallato dalla medicina del tempo, di servirsi per allevare il neonato, del latte di una sola mucca, selezionata accuratamente, che diventava l’ignara balia del piccolo.
    Capitava  anche di dover cambiare fornitura, per qualche situazione contingente;
i miei ricordi di quella casa risalgono al periodo in cui la mamma, che poco lontano aveva il suo piccolo negozio di generi alimentari, cominciò a comprare il latte fresco da questa anziana cliente, la cui casa si trovava in strada rispetto alla bottega. Di questa comodità io vedevo solo il lato negativo: la sfida serale con Buck.
    L’anziana padrona di casa, vedova da anni, aveva un figlio che si avviava alla maturità e che alternava la vita dei campi alla vita mondana nella vicina Versilia, come accade spesso per i giovani non ancora legati dal vincolo del matrimonio. Le avventure versiliesi del giovane, simpatico e scanzonato, erano motivo di ammirazione nei ragazzi ed anche di emulazione nei modi e nel linguaggio da parte dei giovanissimi. Gli adulti, parenti o conoscenti, erano invece un po’ preoccupati dal tempo che passava senza produrre gli effetti desiderati : moglie, figli e testa a posto, secondo il buon senso contadino delle nostre parti.
In quegli anni molti agricoltori si avvalevano di aiuti esterni per la raccolta della frutta in estate e per le colture invernali, specialmente gli spinaci, che richiedevano particolari e faticose cure, nel disagio delle intemperie stagionali. Così accadeva che arrivassero, a questo scopo, gruppi di ragazze da zone montane, più povere di risorse rispetto alla nostra campagna, e spesso erano ospitate dalle stesse famiglie nei cui terreni prestavano la loro opera.
Fu proprio una ragazza, proveniente dalle belle colline della provincia di La Spezia che pose fine al chiacchierato regime da scapolo del giovane. Furono in molti a interrogarsi su questa scelta e, forse, qualche ragazza del paese, in precedenza un po’ preziosa, rimpianse anche un rifiuto intempestivo, ma la nuova coppia iniziò il suo percorso familiare. Nacquero due bei bambini, simpatici come il padre, che nel frattempo aveva lasciato il lavoro della terra per una nuova occupazione. La nuora conviveva con l’anziana madre con il rispetto e l’affetto di solidi sentimenti e principi, ormai rari nelle famiglie di oggi.
Purtoppo il futuro non sempre segue le nostre aspettative ed una malattia inesorabile spense in poco tempo lo spirito proverbialmente vivace ed il fisico in piena maturità del capofamiglia.
Come spesso accade, alla malattia del figlio, per l’anziana madre si aggravò il fardello degli anni e dei disturbi, tanto da non consentirle più di lasciare il letto nella propria camera, accudita dalla nuora e i due cari nipoti. Da lì seguiva la malattia del figlio e riceveva le pietose notizie mitigate da un velo di speranza anche quando la speranza ormai si era dissolta. Alla morte del figlio, il medico di famiglia suggerì di non comunicare la tragica realtà alla donna, sempre più sofferente, perché avrebbe potuto causare effetti irreversibili nella sua già fragile condizione. Per fugare i dubbi e gli interrogativi della madre inconsapevole, la nuora, dissimulando il suo immenso dolore con una forza d’animo fuori dal comune, fingeva che ancora durasse il ricovero nel vicino ospedale. All’orario delle visite giornaliere, fingeva di uscire e, per non destare sospetti, con un paio di ciabatte in mano, si metteva le scarpe in modo che la suocera udisse i passi attraverso le stanze della casa e il corridoio ed infine lungo il vialetto inghiaiato che univa la loro proprietà alla strada pubblica. Qui infilava le ciabatte per compiere a ritroso il percorso, con le scarpe in mano, con passi silenziosi che dalla sua camera l’inferma non poteva udire. Passato il tempo che sarebbe stato necessario per l’andata, la visita all’ospedale e il ritorno, i passi, accompagnati dal taccheggiare delle scarpe, riportavano la nuora nella stanza della vecchia madre, insieme alla pietosa bugia di qualche particolare della finta visita al marito, vincendo lo sgomento del suo dolore, nascosto  per tenere in vita la speranza del vecchio cuore materno con un filo che il destino aveva già tagliato da tempo. La vecchia madre si riunì al figlio, nella pace che tutto conclude, dopo qualche mese.
Talvolta  nella vita ci passano accanto fatti di ordinario eroismo.

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